Ogni anno quando arriva il giorno dell'Immacolata penso sempre a mia nonna. Mia nonna non era quel genere di vecchina tutta rughe e tenerezze, era più simile ad un sergente dei Marines sopravvissuto alla guerra in Vietnam. Alta quasi due metri, quando camminava faceva tremare talmente la soletta che la rilevavano i sismografi dell'INGV. L'otto dicembre era il giorno in cui si doveva fare l'albero e tutti noi teneri nipotini ci attorniaviamo a lei per far sì che ancora una volta si perpetrasse il rito, la magia. Era un momento che noi piccoli delinquenti aspettavamo con ardore, il momento in cui lei tirava fuori da un enorme sacco della spazzatura l'albero già decorato l'anno precedente. In sostanza lei non lo disfaceva mai: arrivati al sette gennaio lo prendeva per come era, staccava la spina delle luci "accendispegni" e lo rificcava in un enorme sacco nero arrocandolo sopra l'armadio fino all'anno successivo. Questo autentico abete di puro pvc, alto appena un metro, non aveva nemmeno il piede di sostegno, tant'è che lo aveva piantato dentro un vaso di coccio pieno di terra morta. Complessivamente pesava 300 kg. Le palline erano praticamente incatenate alle fibre dei rami come relitti del Titanic e le luci per metà fulminate sembravano l'insegna rotta di un bar nel Bronx. Avrebbe potuto prendere fuoco da un momento all'altro. Ricordo come fosse ieri il momento in cui lei sfilava l'albero dal sacco come un coniglio dal cappello e lo appoggiava sul mobile del salotto con consapevole orgoglio. Ogni tanto pendeva e lei lo raddrizzava come nulla fosse, per poi cedere definitivamente fermato solo dal muro. Mio padre lo ribattezzò "l'albero di Pisa".
Questa mattina mio figlio mi ha chiesto di preparare l'albero e attualmente continua a chiedermelo a ripetizione attuando l'infallibile tecnica dello sfinimento. Gli ho appena detto che lo faremo, mentre nel frattempo sto cercando su Amazon un sacco nero di un metro e ottanta per due. Dal Vietnam è tutto.