giovedì 19 marzo 2020

Flashmob

Anno 2009, mio padre, il mio mito assoluto, muore dopo due anni di atroci terapie e ricoveri. Un dolore da non dovervi spiegare.
Il 17 Luglio i funerali e al prete della chiesa, rincoglionito quanto basta, ad certo punto della predica, gli cade la dentiera mentre alza le mani al cielo. Se la sistema come nulla fosse "con lo spirito Santo" e il pollice in bocca. Mi volto lentamente e dietro vedo i miei amici, quelli che si contano sulle dita di una mano, tentare di soffocare le risa. Col labiale mi chiedono scusa, si danno gomitate e si tappano la bocca con le mani. Ma c'é un problema, rido pure io. Sì, io. Per 30 secondi mi sono sentita di nuovo umana, nella mia comfort-zone che nulla toglieva a me, né a mio padre di cui sono la replica. Avrà di certo riso pure lui. La morte è un problema dei vivi.
Ci penso spesso in questi giorni, soprattutto quando qualcuno scrive che bisogna avere rispetto per chi è ricoverato, intubato, pluripatologico, immuno e depresso; per chi preferisce il silenzio o per chi ha bisogno di calma per uccidere i coronavirus a uno a uno a colpi di amuchina, perché con i flashmob si sta esagerando, giacché la modalità uccello del malaugurio è più consona.
Io invece ieri, a sentir l'inno nazionale mi sono emozionata, mi rallegrava vedere gli anziani soli del quartiere, affacciati dai loro soggiorni, in cerca di un saluto e un sorriso. Perché ridere è una cosa seria e soprattutto rinforza le vostre difese immunitarie.

mercoledì 18 marzo 2020

L'amore ai tempi del coronavirus

Risultato immagini per coronavirus cuoreTratto da: Io e te, un metro di distanza

"Era così bella, la sua immagine riflessa sul vetro del banco del pesce surgelato, circondata dagli stoccafissi. Poi, come previsto, ci incontravamo clandestinamente al reparto salumeria. Sentivo le mie braccia tremare, stringevo fra le mani la mia autocertificazione.
Ricordo che una volta mi disse: "prendi tu l'ultimo salame..." 
Me lo porse, svenni sullo scaffale delle penne lisce, ormai vuoto anche quello"

martedì 17 marzo 2020

Il Coronavirus a Palermo

Palermo, annus domini MMXX.
Il #coronavirus giunge a Palermo. Tratto da una storia vera.
Nel nosocomio Ospedale Cervello una famiglia piange il caro estinto nella camera mortuaria.
I parenti sono riuniti intorno al feretro, piangono, mormorano:
"Che brava persona che era", "poteva vivere ancora un po', non era vecchio", "una brutta malattia se l'é portato". Pianti. Commiati.
La sala si fa sempre più gremita. Accorrono parenti da Agrigento per l'ultimo saluto.
Ad un certo punto, nel brusio sommesso, arriva il parente zero che trafelato urla: "Peeeyno, al prontosoccorso hanno detto ca arrivó u' coronavirus, Scappiamo! ", in 5 secondi l'Apocalisse. Fuggi fuggi generale, le donne acchiappano i bambini e si fiondano fuori urlando il si salvi chi puó. Pino e il parente zero cominciano un giro di telefonate per fermare i parenti in arrivo dall'estero: "Totó, torna indietro, quà c'è il coronavirus... Come sarebbe a dire come fai a tornare?...Scendi a Roccapalumba e prendi quello di ritorno per Agrigento". La sala comincia a svuotarsi, un parente che stava mangiando un panino lo getta per terra, se la dà a gambe levate, si spacca un sacchetto della spesa. Mele che rotolano dappertutto. La sala adesso è vuota, c'è solo la bara scoperchiata e il panico che fa eco. A quel punto arriva l'operatore delle pompe funebri che basito rincorre l'ultimo visitatore rimasto che sta scappando, lo acchiappa per la manica e chiede: "Scusi, ma ora noi che facciamo?"
"Lo chiuda, lo chiuda! Si sbrighi, tanto non resuscita!"
Vanno via davvero tutti. La bara è sigillata, abbandonata insieme alle mele. Un uomo che si trovava lì, aveva assistito alla scena, si avvicina all'operatore delle pompe funebri che sta andando via e chiede: "Sa, mica come si chiamava questo signore?", riferendosi al defunto.
"No, mi dispiace, non gliel'ho chiesto prima di chiuderlo".


FINE.