mercoledì 20 ottobre 2021

Squid che?

È da circa un mese che sento parlare di Squid Game, tra preoccupatissimi genitori che lanciano allarmi sociali e appassionatissimi fan di questa serie televisiva sudcoreana prodotta da Netflix. Premesso che l’unica cosa che guardo in tv è Doraemon, e non per mia volontà, per capirne di più ho dovuto cercare qualche informazione su Google e YouTube.

Squid Game, letteralmente gioco del calamaro, parla di 456 poveracci indebitati fino al collo che accettano di partecipare ad una specie di gioco senza frontiere dove chi perde viene ucciso brutalmente da guardie vestite di rosso contraddistinte dai simboli  dei tasti dei controller (Δ O X)- a voler sottolineare  che ci troviamo in uno shooter game umano. Tutto questo accade per il sollazzo di alcuni miliardari che osservano dai teleschermi quello che poi è un reality in cui vince chi non è morto durante l'esecuzione delle prove. In palio un montepremi di 45600000000 won, circa 33 milioni di Euro.
Su Youtube si trovano piccole parti degli episodi, probabilmente quelli più pulp,  e due in particolare saltano fuori fra i primi risultati di ricerca:  una in cui una  "guardia tasto triangolo" fredda un partecipante che non è riuscito a scrostare perfettamente la fustella di un biscotto e un’altra dove una bambola gigante spara dagli occhi, come Freezer di Dragonball,  ad un poveraccio biondo decolorato che ha perso da pivello ad un, due, tre stella. Sangue dappertutto come nei migliori dei film di Tarantino o Kurosawa. 

Sicché,  alcuni comitati a tutela dell'infanzia e orde di genitori in apprensione per il possibile effetto simulazione, sobillati  da psicologi illuminati dai loro smartphone, hanno fatto scattare l' allarme  sociale che metterebbe a nudo le fragilità dei loro figli e i loro repressi istinti predatori. 

È vero che alcune scene sono davvero truci, ma nell'insieme risultano al limite del grottesco,  dal momento che gli attori recitano volutamente in modo caricaturale sembrando concorrenti del Takeshi’s Castle.

In ogni caso niente di nuovo per chi ha dimestichezza con la cinematografia asiatica-  ancora meglio con quella coreana (avete mai visto Parasite?) - e niente di nuovo per noi della generazione cresciuta a crostatine mulino bianco e cartoni animati giapponesi in cui il fatto che a un bambino delle elementari sanguinasse il naso in presenza di una bella ragazza sembrava una cosa normale. I manga ci rendevano comprensibili aspetti della cultura orientale che mai avremmo avuto modo di capire.

Vi ricordate il cartone animato “Forza Sugar?” Ve la ricordate la prima puntata  in cui il tenero e piccolo Sugar orfano di madre, seduto su una panchina immersa nella nebbia della sera  accanto al papà pugile, si accorge che questi gli è morto accanto in silenzio, ucciso dai postumi di un KO? Intere generazioni non c’hanno dormito la notte e nemmeno il giorno. E non voglio scomodare Ken il Guerriero o l’uomo Tigre in cui le scene dove l’avversario esplodeva come un petardo e schizzava sangue sugli spettatori impassibili erano la norma.

Una volta, lo ricordo come fosse ieri, ma era più o meno il '91, due dei miei tre fratelli rimasti fulminati dal film Karate Kid cominciarono a darsele di santa ragione senza motivo, fin quando pensarono bene di simulare un combattimento in cucina dove campeggiava un enorme lampadario di vetro massiccio. La sfida durò qualche minuto fin quando uno dei due, prima di sferrare il colpo fatale, aiutandosi col bastone della scopa usato come spada,  dopo un impetuoso “mossa della gruuu!!” con rincorsa, spaccò la plafoniera rimanendo affettato sotto la pioggia di migliaia di frammenti di vetro che schizzarono dappertutto. Naturalmente finì al pronto soccorso e ricordo bene il momento in cui rincasando da scuola incontrai mio padre con la faccia di marmo che trascinava mio fratello fuori di casa tenendolo per il collo. Mio fratello con il volto bianco come un lenzuolo era ricoperto di sangue come un mon cherì spappolato. Non mi sembrò strano, tant'è che chiesi imperturbabile cosa fosse accaduto e mio padre ancora più imperturbabile rispose: “Non lo sai che hai due fratelli samurai?”. 
Entrando in casa trovai mia madre sconsolata,  che con la spada spazzava via il vetro dal pavimento della cucina e nel frattempo borbottava quanto fosse dispiaciuta per il suo lampadario da duecentomila lire. 

Tuttavia, crescendo con tre fratelli maschi più grandi di me, non serviva guardare cartoni animati o telefilm per assistere in casa a episodi che oggi ci avrebbero catapultati al tribunale dei minori. Squid game avrebbe avuto su di noi la stesso impatto del Lago dei Cigni e nessuno di noi si sarebbe sognato di dare la cera e togliere la cera a qualcuno perché non solo conoscevamo bene i nostri genitori, e quello che ci sarebbe capitato, ma soprattutto loro conoscevano bene noi.

Il polverone sollevato da Squid Game non è che una parte di quella rete di marketing tipica dell' industria dell' entertainement a cui molti hanno abboccato proprio come calamari.
I veri pericoli celati negli ambienti virtuali frequentati dai loro figli, ad esempio l'imitazione di  idoli opinabili,  risiedono altrove, soprattutto nell'oblio di ciò che siamo stati a tredici anni e della società in cui vivevamo, non meno complessa e meno rischiosa di quella odierna. 
Il turbamento e la preoccupazione per gli effetti che avrebbe un telefilm come Squid Game, con la sua narrazione grottesca, che cela maldestramente messaggi di accusa politici, mette piuttosto in risalto le fragilità degli adulti e la loro incapacità di interpretare correttamente la realtà e i contenuti diffusi dai media, piuttosto che la debolezza di ragazzini che sanno bene che il sangue sputato è solo gel a base di silicone venduto su Amazon a 12 euro al litro. 



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