sabato 29 ottobre 2016

Due novembre ovvero: i morti

L’altro giorno ho cercato di spiegare ad una mia amica piemontese cosa rappresentasse per noi siciliani il 2 Novembre. Non ci sono riuscita. 
-“Ah già il 2 non possiamo vederci, è festa!”, le dico. 
-“Festa?”
-“I morti! La festa dei morti no? Sarai impegnata in famiglia, immagino.“
Mi ha ascoltata interdetta, gliel’ho letto in faccia quel tu sei pazza, ma ho continuato. 
-“Sai che durante la notte del 2, i Morti ritornano sulla terra e lasciano i regali sul tavolo della sala da pranzo, con la frutta martorana… no eh?”
Giustamente lei dopo avermi ascoltata in quello che sembrava un delirio, riportandomi alla realtà, mi ha spiegato- come si farebbe a un sordomuto-  che “è Ognissanti ad essere segnata in rosso nel calendario e che il giorno dopo si va a lavoro, che le scuole sono aperte e che non ci sono zombie negli appartamenti“.

Ok, ok. Ho desistito, accettando la lezione facendo spallucce. 
Ma in fondo, da qualche parte nella mia testa, ho ragione io. 
Il giorno della Commemorazione di Defunti, in Sicilia, rappresenta una sorta di anticipo sulle feste di Natale. Ogni occasione è buona per fare grigliate e finire con l’intossico a Villa Sofia.  Sono passati troppi giorni dal barbecue di Agosto, e troppi giorni ancora ci vogliono fino all’8 dicembre , il calcio di inizio di tutti i  rave alimentari fino alla  befana.
Ma procediamo con ordine.  
Se di morti si parla, chi possono essere i protagonisti indiscussi di questa festa? 
Naturalmente i bambini. 
Per questo motivo, ricordo che il dopo cena dell’1 Novembre, fino ai dieci anni, era un incubo. Mia madre minacciava me e i miei fratelli di violenza domestica reiterata, qualora non fossimo andati immediatamente a letto. 
“Andate a dormire e fate i bravi che se no i morti non vengono e non vi lasciano niente per regalo, nemmeno la martorana”. Risultava molto convincente.
Il problema principale era però che a quel tempo, vista la piccola casa in cui vivevamo, io dormivo proprio in soggiorno, in uno di quei letti apribili che si usavano nelle famiglie proletarie degli anni ’90. Inutile dirlo, il mio letto si trovava adiacente al tavolo che doveva essere imbandito a mia insaputa.
Andavo a dormire con la coperta incastrata fin sopra la testiera, in apnea, con gli occhi sbarrati tipo cura Ludovico, e prima di addormentarmi venivo assalita dai più tetri dubbi alla Giacobbo.

“Ma da dove arrivano i morti? Perché vengono di notte e non di giorno? Soprattutto come hanno fatto a sapere che l’anno scorso  volevo Ciccio Bello pappa e mi scappa? Chi glielo ha detto?”
Naturalmente erano domande con cui tormentavo tutti, tutti gli anni, in prossimità di giorno 2,  fin quando una volta mio fratello Ferdinando, il maggiore dei tre che ai tempi era fissato con il Metal,  mi rispose sottovoce con un divertito e  funereo: “E’ mamma che glielo dice, lei parla con i morti”. A quel punto  smisi per sempre di fare domande, lasciandomi  tormentare nella solitudine del mio lettino, sperando che anche questa volta i morti avessero comprato da Sara Giocattoli , in Via Volturno, Barbie Midnight Gala.
Al risveglio, il mattino era una gara per i miei fratelli a chi spalancava per primo la porta del soggiorno bloccandomi la crescita per il terrore. Mi svegliavo di soprassalto direttamente in piedi, e visto  che eravamo esonerati dall’andare a scuola in quanto festa nazionale,  ci affiancavamo al tavolo per ammirare quello che i cari estinti ci avevano portato durante la notte. 

Entravano dalla finestra? Evaporavano attraverso gli  spiragli degli infissi? Vivevano nello sgabuzzino? Come facevano a sostenere il cesto se erano fatti  di aria? 

Era una fiera di giochi e dolci di tutti i tipi,  che nomi a parte, erano squisiti inviti al diabete precoce. Le crozze di morto (ossa di morto), i pupatelli, i taralli, i nucatoli e i totò bianchi e marroni. Gli ‘nzuddi con le mandorle e la frutta secca. Poi c’era la protagonista indiscussa: sua signora la frutta di martorana, quei piccoli dolci di pasta di mandorle a forma di frutta fresca oramai conosciuti in tutto il mondo. Ci avventavamo come Indios sui cinghiali, arraffavamo di tutto litigando per una mandorla, davanti agli occhi soddisfatti dei miei. Solo la frutta martorana veniva protetta da un piccolo involucro di carta trasparente, e tolta immediatamente dal braccio telescopico di mia madre che dipanava la piccola mandria di figli  che eravamo. La frutta martorana, in effetti costava un occhio della testa,  quindi veniva attentamente suddivisa da mio padre con parsimoniosa dovizia chirurgica, affinchè tutti, grandi e piccoli,  potessimo assaggiarne un pezzo. A me non piaceva, magari preferivo masticare i piedi della mia nuova Barbie. 
Tutto quel tripudio di zuccheri era messo dentro un cesto con tutte le primizie di stagione,  e magari,  se eri fortunatissimo, trovavi anche un  Pupu ri zuccaru- chiamato anche pupaccena”- una statuetta di puro zucchero dipinta con le fattezze di un Paladino, che solo a guardarla ti partiva una carie al molare del giudizio che ancora non avevi.
Insomma, si trattava molto di più della giornata dedicata al tour dei cimiteri, e ancora oggi per me, come per molti altri siciliani, rappresenta una tradizione profumata  da trasmettere al figlio che verrà. 


E soprattutto, come facevano a sostenere il cesto se erano fatti  di aria?

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